Fenomenologia della tigre siberiana
È difficile realizzare davvero quanto sia grande la Russia. Per un europeo della fascia mediterranea, l’idea geografica di Mosca è già quella di un confine terminale. Ma supponiamo che questo europeo voglia avventurarsi oltre, verso est, e addirittura fino al limite delle terre emerse. Troverebbe i monti Urali, la frontiera tra Europa e Asia. Gli stessi russi di città, in molti casi, ignorano che al di là degli Urali ci sia qualcosa. Per diversi russi l’Estremo Oriente si estende oltre il margine conosciuto del mondo, e il fatto che venga considerata una sconfinata terra di oblio ha forse qualche legame con i freschi ricordi dei decenni in cui chi fosse giunto in quelle terre, non avrebbe mai fatto ritorno. Ad ogni modo, oltre gli Urali, il viaggiatore europeo si troverà davanti la Siberia. Avanza. Supera da nord, si può immaginare in quanto tempo, l’immensità del Kazakistan e della Mongolia. Resta ancora la Cina; il viaggiatore oltrepassa anche quella. Se, a quel punto, attraversa il leggendario fiume Amur e si butta a capofitto verso sud, si spalancherà davanti a lui una terra comunque enorme che però, vista sull’atlante, somiglia a un piccolo artiglio ricurvo ai margini del pianeta: a ovest, si è lasciato indietro la Cina e tutta l’Asia; qualche centinaio di chilometri a sud, comincia la Corea del Nord; a nord, si trovano lo Stretto dei Tartari e la grande isola di Sachalin; a est, sono rimasti solo il mar del Giappone, il Giappone stesso (distretto di Hokkaido), e l’Oceano Pacifico. Eppure, è ancora in Russia. L’infinito territorio russo potrebbe a questo punto apparirgli come un’entità avvolgente capace di abbracciare ogni lembo di terra che si solleva tra i due Oceani: e non sarebbe così lontano dal vero. Il viaggiatore è finito in un angolo di mondo cui gli stessi russi hanno difficoltà a dare un senso. I cinesi lo chiamavano shuhai, mare di boschi.
Fino alla metà del 1600, quando sono arrivati i primi coloni, nelle vesti di missionari ortodossi, l’interminabile foresta compresa negli ottocento chilometri che separano Chabarovsk da Vladivostok è stata abitata solo dalle stirpi indigene Udege, Nanai, Oroci: tribù di cacciatori, pescatori e raccoglitori. Oggi è punteggiata di minuscoli villaggi che sorgono nel nulla, distanti tra loro come stelle, fatti di baracche di legno e tetti di amianto, i cui abitanti fumano sigarette arrotolate in fogli di giornale, davanti a cortili che in estate sono seminati a patate fino all’ingresso, e d’inverno coperti di neve fino ai davanzali delle finestre. Chi può se ne va. Chi resta impazzisce, o si alcolizza, o diventa a tutti gli effetti un essere della taiga. Le notti a meno quaranta gradi possono portare eventi curiosi: le palpebre degli occhi si gelano nel sonno; le scatole del cambio dei camion, benché fatte di ghisa, esplodono; pochi minuti dopo che la stufa si è spenta, le stanze diventano delle ghiacciaie. Fuori dai villaggi, restano i tayozniki (abitanti della taiga), che vivono da soli in capanni isolati, a molti chilometri l’uno dall’altro, e quasi mai chiusi a chiave: l’ospitalità esiste ancora, e le visite non previste sono accolte come un mirabile evento degno di due tazze di vodka.
Il clima estremo (inverni che toccano i meno cinquanta gradi, estati di tifoni e piogge monsoniche) non ha impedito lo sviluppo di un ecosistema eccezionale, dove lupi, orsi bruni e leopardi cacciano in vallate su cui crescono betulle, abeti, querce, loti giganti e kiwi selvatici, e dove alci, renne, avvoltoi eurasiatici e orsi neri himalayani si abbeverano agli stessi torrenti tra bambù e filodendri.
Questa terra si chiama Primorje. Era parte della Manciuria cinese, ma un secolo e mezzo fa venne annessa dallo zar Alessandro II al suo impero. Oggi è l’area con maggiore biodiversità della Russia, e la vastità della sua foresta ha la fortuna di poter apprezzare quella bolla di perfetto silenzio e di immobilità che si concretizza al passaggio della creatura sovrana, il più grande felino al mondo: la tigre dell’Amur (Panthera tigris altaica), nota anche come tigre siberiana, tigre della Manciuria, tigre dell’Ussuri.
Psicologi e antropologi hanno condotto vari studi per capire a quale età la nostra mente sviluppa un primo apparato difensivo in grado di riconoscere ed evitare i predatori. Il risultato delle ricerche ha messo in luce che già tra i tre e i cinque anni, anche se non ancora in grado di padroneggiare la lingua, i bambini sono perfettamente in grado di capire le regole fondamentali del comportamento predatorio, e di sapere cosa succede, ad esempio, se una tigre si trova di fronte un cervo.
Non pochi studiosi la ritengono una chiara eredità genetica dei milioni di anni di paura e sofferenza in cui è stato necessario sfuggire ai grandi carnivori per arrivare vivi all’età della riproduzione e permettere alla specie di proseguire il cammino, ampliare il cervello e le funzionalità, scoprire gli utensili, il fuoco, via via fino agli ultimi centomila anni, in cui la velocità estrema della sua evoluzione, non senza danni collaterali, avrebbe imposto Homo Sapiens al vertice della catena alimentare.
Al di là della bellezza ipnotica, immediatamente percepibile, gli antichi, profondi motivi del nostro precoce fascino e timore per tigri o leoni, non sarebbero così diversi da quelli che spingono ogni notte i babbuini della savana a nascondersi in grandi gruppi nelle grotte e a non uscirne per nessun motivo: le minacce rappresentate dalle creature che li aspettano fuori dalla grotta si sono insediate nella coscienza in modo permanente.
Sarebbe stato interessante partecipare allo studio con una testimonianza personale: uno dei pochissimi ricordi nitidi della scuola materna – avrò avuto quattro anni – riguarda la proiezione di Goofy – Tiger Trouble, un fantastico cortometraggio animato Disney di sette minuti, realizzato negli anni Quaranta, che fu per me un’esperienza semi-lisergica di puro terrore. Al contrario della Shere Khan del Libro della giungla (altro capolavoro Disney, del 1967), capace di impressionare un bambino anche solo con quella tremenda voce baritonale, la tigre di Goofy era chiaramente ridicola: aveva un dente solo, sbadigliava, sgranocchiava entusiasta suole di stivali; eppure fui colto da una specie di paralisi, vedendo il suo corpo che scompariva tra i bambù, mentre le strisce nere continuavano a muoversi da sole.
Anni dopo avrei letto, in un romanzo di Luis Sepulveda, la storia di un grande felino che nell’Amazzonia ecuadoriana, provocato e ferito dall’uomo, impazziva di rabbia e si vendicava sugli esseri umani con una caccia mirata. Trascorsi altri anni ancora, avrei scoperto che la storia narrata da Sepulveda era realmente accaduta anche nel Primorje, e con protagonista non un tigrillo, ma un maestoso esemplare di tigre dell’Amur.
L’eccezionale libro che ne parla, ispirato al documentario Conflict tiger (2005) di Sasha Snow, è stato scritto da John Vaillant e si intitola La tigre (Einaudi, 2012). Racconta i fatti avvenuti in un minuscolo spicchio del Primorje, ovvero la media valle del fiume Bikin, nei pressi del villaggio di Sobolonje: un bracconiere (Volodja Markov) infrange la legge non scritta di coesistenza tra uomo e tigre, e il felino scatenerà la sua reazione su di lui e sugli uomini delle terre circostanti; un cacciatore dai tratti epici (Jurij Trush) sarà a quel punto chiamato a fermarla.
Difficile sostenere se sia, come è stato detto da più parti, una sorta di Moby Dick contemporaneo; sarebbe come mettere sul ring un campione dei pesi massimi e uno dei pesi medi, grandi pugili entrambi, ma di diversa stazza, non paragonabili.
Eppure hanno molti punti in comune. In primo luogo l’ampio respiro della scrittura e la sua felice ibridazione, a metà strada tra un manuale storiografico di colonizzazione e caccia (l’uno nell’oceano, l’altro nel Primorje), un trattato di storia naturale, un saggio di antropologia comparata, un reportage di viaggio; il tutto, imperniato sul racconto in crescendo della sfida ancestrale tra un mortale e una bestia mitologica.
Entrambi i libri evocano in modo superbo la presenza di una creatura terrificante e ipnotica che in modo scientemente volontario si rivolta contro l’uomo, come per ridefinire una volta per sempre limiti e proprietà dei rispettivi poteri; ed entrambi volgono lo sguardo – Melville in modo probabilmente insuperabile – allo spirito sovrannaturale di certi esseri viventi e all’abisso della coscienza, o non-coscienza, umana; alla possibilità, infine, che queste indicibili barriere possano toccarsi.
I primi coloni russi arrivano in Primorje nel 1600. Sono missionari ortodossi. Gli sciamani e le popolazioni indigene, fermamente credenti negli dei che servivano e nei poteri che esercitavano, sarebbero stati psichicamente devastati, tanto dal disprezzo dei missionari di allora, quanto, tre secoli dopo, dalla furia ordinatrice del governo e della tecnologia sovietici.
Ma prima della ferrovia, delle centrali elettriche a carbone e dello Stato comunista, dal Primorje sarebbero passati anche i cosacchi, i cavalieri dello zar, in un processo simile per molti versi alla conquista del West americano, che in Russia fu più lento e frammentario solo per la vastità e i disagi dell’immane territorio. Molti coloni, di fronte alla difficoltà del Primorje, battevano in ritirata e tornavano indietro (operazione che poteva durare anni). Altri restavano, profondamente toccati dal paesaggio e dall’ambiente incredibile della “giungla boreale”, la taiga. Come nella frontiera nordamericana, si scontrarono due concezioni profondamente opposte: da un lato i coloni russi, di religione cristiana, si comportano come proprietari del luogo, conquistatori autorizzati, del tutto disinteressati a tenere in conto le culture locali o le forme di vita animale e vegetale, secondo i loro dettami vetero-testamentari (Noè, Genesi: “Moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore di voi e il terrore di voi sia in tutte le fiere della terra […] tutto ciò che si muove e ha vita sarà vostro cibo”). Dall’altro, i popoli indigeni, animisti, convinti che uomo, animali e piante siano membri paritari della stessa tavola rotonda spirituale, ben rappresentati dalle parole di Dersu Uzala, l’esploratore e cacciatore Nanai di cui Vladimir Arsen’ev e Akira Kurosawa avrebbero raccontato la storia: “Lui (cioè amba, nome indigeno per la tigre) è come uomo… Solo camicia diversa. Capire inganno, arrabbiarsi, capire intorno. Proprio come uomo”.
Sobolonje (in russo “posto degli zibellini”, mustelidi la cui preziosa pelliccia rappresenta nel Primorje un ottimo trofeo di caccia) è il villaggio in cui si svolge questa storia. Immerso nella taiga che circonda il medio corso della valle del fiume Bikin, viene fondato intorno al 1970 per decisione dell’Ente forestale nazionale, un’azienda statale di legname, con lo scopo di sfruttare i boschi di pioppi, querce e pini che vi si estendono intorno all’infinito. Sotto il giogo sovietico, viene garantito dallo Stato un livello minimo di assistenzialismo, sotto forma di cibo, alloggio, lavoro, istruzione. Crollata l’Urss, parte un saccheggio di segno opposto a quello della rivoluzione bolscevica: un cleptocapitalismo predatorio su vasta scala, col quale gli oligarchi (tra i quali ad esempio Roman Abramovic, che si compra l’intera Cukotka) si spartiscono porzioni di territorio grandi come la Francia.
Inizia il disastro del Primorje, che viene spogliato delle risorse naturali e riceve in cambio macchine obsolete dal mercato giapponese, autobus difettosi dal mercato sudcoreano, e dalla Cina vestiti in poliestere, frutta fresca trattata con pesticidi, metalli pesanti.
L’Ente forestale chiude, abbandonando Sobolonje al suo destino, cioè tornare a Taiga Matuska, Madre Taiga, e vivere dei frutti di una terra dalle caratteristiche estreme. Diventa così un paese fantasma, abitato da gente inselvatichita, dedita ad alcolismo e bracconaggio seriale. In questo contesto, uccidere una tigre dell’Amur, portare il corpo al confine cinese e venderlo ai contrabbandieri (si favoleggia di compensi fino a cinquantamila dollari) significa sbancare la lotteria. La caccia di frodo alla tigre, già ripartita con forza dopo la riapertura delle frontiere con la Cina nel 1989, è solo il sintomo più visibile di un assedio all’ambiente. Nel Primorje, dove cresce il legname più pregiato dell’estremo Oriente, la troppa curiosità sui camion e i treni carichi di tronchi diretti a sud (per essere trasformato in prodotti cinesi, destinati agli ipermercati statunitensi), si può pagare con la vita. Con la perestrojka e l’apertura delle frontiere, i primi reportage occidentali scoprono l’esistenza delle tigri dell’Amur, fino ad allora praticamente sconosciute e quasi mai studiate. Biologi e ricercatori russi e americani, notando l’aumento di uccisioni e il grave pericolo di estinzione della specie, riescono nel 1992 a dar vita al Siberian Tiger Project, il grande programma di protezione che sarà decisivo nell’evitare l’estinzione della specie e nel non far scendere le tigri dell’Amur al di sotto della soglia dei cinquecento esemplari, cifra che ha trovato conferme anche di recente.
Il rischio di estinzione era forte anche prima della rivoluzione del 1917. Il fatto che durante i circa settant’anni di comunismo l’animale sia stato più protetto, può essere considerato come uno spettacolare esempio di paradosso russo: proprio nello Stato fondato sulla concezione marxista per cui l’uomo deve piegare la natura al proprio volere, trasformandola radicalmente, e proprio nel 1935, all’apice delle purghe con cui Stalin ridefinisce, insieme alla natura, anche la demografia e la psiche della popolazione, vengono create le zapovedniki (“aree proibite”, cioè riserve naturali integrali): mentre nella società è in atto il più spietato controllo dell’uomo sull’uomo, in ambito naturalistico la scelta di non-ingerenza umana è la salvezza della tigre.
Questo paradosso ne contiene un altro: una forma di marxismo, evidentemente poco riuscito tra gli umani, può realizzarsi nella natura stessa, grazie alla tigre: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni: tra gli animali della taiga non esiste dispensatore di cibo più efficiente e generoso. Abbattendo con regolarità prede della stazza di alci, wapiti, cinghiali e cervi, la regina della taiga fornisce il nutrimento a una quantità innumerevole di animali più piccoli, di uccelli e di insetti, oltre ad arricchire l’humus del terreno. Ogni uccisione immette nuova linfa nel corpo della foresta. Queste infusioni casuali ma costanti nutrono anche gli uomini”.
La tigre dell’Amur è il felino più grande sulla terra. Può superare i trecento chili e i quattro metri di lunghezza se si include la coda. Il silenzio con cui si muove e conduce gli assalti la avvicina a un fantasma. L’aura che la circonda è descritta perfettamente dalle parole che usa Brian Phillips – sebbene si riferisca a una tigre del Bengala – in Le civette impossibili (Adelphi, 2020): “L’arrivo di una tigre è spesso preceduto da momenti in cui sale la tensione, perché la presenza di una tigre modifica la giungla tutt’intorno, e tali cambiamenti sono più facili da rilevare. Il canto degli uccelli si fa più cupo. I piccoli di cervo si scambiano deboli richiami. Le mandrie non corrono, ma assumono forme che suggeriscono l’emergere di una consapevolezza collettiva di dove fuggire. Una sorta di brivido pare attraversare ogni cosa, un lieve brusio che fa – letteralmente, nel mormorio hindi delle guide – “tigre, tigre, tigre”. Questa zona di apprensione segue la tigre nel suo movimento. Può capitarvi di udire, in lontananza, i sottili cambiamenti di tono e cadenza che indicano il confine di tale zona. Ma anche così è impossibile prevedere dove, o se, la tigre apparirà”.
Naturalmente, l’aura della tigre ha fatto sì che qualsiasi essere animale venga dopo di lei nella catena alimentare (cioè tutti) si sia evoluto in modo da trovare qualsiasi modo per rilevarla e non incrociare la sua strada. È anche per questo che meno della metà degli attacchi della tigre ha successo. L’animale non ha quindi requie. Non va in letargo come gli orsi, né beneficia della divisione del lavoro di cui approfittano i leoni o le iene. È più simile allo squalo, con cui condivide l’eterno susseguirsi di cacce e digestioni solitarie, fino alla morte.
Se la tigre impressiona persino le folle di occidentali che al massimo ne hanno visto un esemplare bolso e spento mentre traccia cerchi nella sua gabbia in qualche capitale, appare logico che nel contesto del Primorje, tra i più avversi del pianeta, la forza e la bellezza dell’animale, combinate alla sua totale autosufficienza e all’impermeabilità verso i rigidissimi elementi naturali, abbiano spinto gli uomini che nei millenni sono sopravvissuti con estrema fatica e pena nelle stesse terre a collocarlo su un piano semidivino.
Non è raro che la tigre faccia sparire dei cani, ma è considerato un tributo plausibile. Per ingraziarsela, anzi, i cacciatori lasciano a lei anche porzioni delle proprie prede. È uno scambio che prevede una ricompensa (non essere sbranati) e che è ragionevole in un luogo in cui la vita dipende dalle creature che ti circondano. Due leggi della taiga, seguite dagli indigeni e dalla maggior parte dei cacciatori, recitano “devi condividere” e “non toccarla, che non ti tocca”. Molti indigeni rifiutano anche i resti di selvaggina lasciati dalla tigre: “Se la prendi resti in debito e devi darle qualcosa in cambio. Ti sentirai in debito e allora avrai paura”. Accettare carne da una tigre è come accettare un favore dalla mafia: non si torna indietro. Si entra in un territorio sconosciuto, si infrange un grave tabù a danno di una divinità, la tigre, che è predisposta al pensiero astratto: assimila nuovi dati, li riconduce a una fonte, a un movente, e agisce di conseguenza. Pensiero astratto significa saper collegare lo sparo del fucile con la percezione del dolore e l’uomo che può trovarsi a cento o mille metri. Moltissime sono le testimonianze di indigeni, abitanti della taiga, eremiti, cui è capitato spesso di vedere la tigre, senza mai essere attaccati. D’altra parte, non si ha praticamente notizia di tigri che hanno attaccato l’uomo senza essere state provocate.
Volodja Markov, l’uomo che innesca – suo malgrado – la storia della tigre del Bikin, sceglie di oltrepassare la soglia. Bracconiere di alto livello per il mercato nero, sottrae cibo alla tigre e le spara, senza però riuscire ad ucciderla, inoltrandosi così in un territorio da cui è impossibile tornare. L’animale, impazzito di dolore e defraudato di qualcosa che considerava suo, infrange a sua volta il patto di non aggressione con l’uomo. Diventa quello che nelle leggende Udege è un egule, una specie di tigre mannara, un essere trasformato, ossessionato dalla distruzione dell’oggetto del suo trauma. Markov potrebbe ancora salvarsi. Potrebbe lasciare per sempre la taiga, ma, come Achab, ha passato il confine. La tigre ha reso schiava la sua mente, lo ha ridotto a una specie di ipnosi, per riportarlo a sé e riaffermare la sua regola. Markov sceglie di non andarsene, ma di sfidare il Primorje, la taiga, la tigre.
Ciò che è meglio lasciare in pace, quella maledetta cosa, non è sempre ciò che attrae di meno. È tutto una calamita! Quand’è che l’hai visto l’ultima volta? Che rotta faceva?”
Achab
“Per apprezzare il vero valore di questo animale, per cogliere appieno la sua necessità, gli uomini hanno bisogno di argomenti che collimino con il loro interesse egoistico. probabilmente il più convincente, al di là della sublime bellezza che trasmette l’immagine di una tigre nella foresta, è il fatto che un ambiente popolato di tigri è, per definizione, un ambiente sano. Se c’è abbastanza terra, acqua, riparo e selvaggina per sostentare una specie dell’importanza della tigre, significa allora che tutte le creature sottostanti sono presenti e attive, e che l’ecosistema è intatto. (…) Un’immagine significativa di ciò che resta dopo che le tigri se ne vanno si può osservare dai finestrini dei treni che collegano la frontiera russa a Pechino: fatta eccezione per una striscia di foresta lungo il confine, quello che un tempo era lo shuhai – “il mare di boschi” della Manciuria – è stato in gran parte raso al suolo. Ogni metro quadrato di terra sembra essere stato sfruttato fino all’osso: raschiato, arato, in qualche modo alterato. Non c’è quasi più traccia di vita animale. Vedere una gazza è un avvenimento. Sembra quasi che qualsiasi essere selvatico più grosso di un ratto sia stato mangiato o avvelenato. Sui dirupi che dominano la pianura crescono ancora macchie ondulate di querce rachitiche, ma in basso le opere dell’uomo di estendono a perdita d’occhio”.
Bibliografia:
John Vaillant, La tigre (Einaudi, 2012)
Tiziano Terzani, Buonanotte Signor Lenin (TEA, 2014)
Brian Phillips, “Mangiatrici di uomini” in Le civette impossibili (Adelphi, 2020)
Luis Sepulveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore (Guanda, 2016)
Vladimir Arsen’ev, Dersu Uzala (Ugo Mursia 1997)
Sylvain Tesson, Nelle foreste siberiane (Sellerio 2010)
Varlam Salamov, I racconti della Kolyma (Adelphi 1995)