Bozeman Trail (parte 1)
In molti, tra gli appassionati di cammini storici e dei più affascinanti trekking al mondo, avranno sentito parlare del Cammino di Santiago, del Cammino Inca, del Sentiero del Vallo di Adriano, del Kungsleden, del GR20, della via Dinarica, della Lycian Way, dell’Oregon Desert Trail, per non dire della strada (o della rete di strade, a quel tempo quasi improvvisate), che nel 990 condusse Sigeric, arcivescovo di Canterbury, dalla Gran Bretagna a San Pietro, al cospetto di Papa Giovanni XV, che lo attendeva per onorarlo con un nobile attestato, detto Pallium.
Ma quanti hanno mai sentito parlare del Bozeman Trail?
Io, fino a pochi giorni fa, no. L’ho scoperto leggendo un libro eccezionale di Vittorio Zucconi.
Per raccontare cosa fu il Bozeman Trail è necessario qualche passo indietro, almeno fino al 1851.
Qualche pillola per contestualizzare: L’Italia era frazionata in cinque Regni; il Granducato di Toscana disponeva da tre anni della sua prima linea ferroviaria, anche se la prima in assoluto l’aveva ottenuta il Regno delle Due Sicilie nel 1839, con la Napoli-Portici.
La Gran Bretagna, che, in estrema sintesi, aveva il dominio assoluto sul mondo, conduceva la guerra dell’Oppio con la Cina e si apprestava ad assumere il controllo su Hong Kong – controllo che avrebbe mantenuto fino al 1997.
C’era però anche una terra immensa, giovanissima - almeno agli occhi dei coloni europei e dei topografi; non dei Nativi, né tanto meno delle scienze geologiche - “scoperta” dagli europei da meno di quattrocento anni, e in larga parte inesplorata. Una terra abitata un grande popolo, frammentato in una costellazione di tribù che vivevano in armonia sia con quello spazio infinito, sia con ciò che quello spazio offriva.
Le miriadi di tribù di Nativi avevano, tra le loro caratteristiche, quelle di adattare il tempo alla vita, e non la vita al tempo, come facciamo noi.
Concentravano in un animale, il bisonte, cacciato e al tempo stesso rispettato come sacro, l’alfa e l’omega del loro sostentamento, e di quell’animale usavano ogni parte, senza intaccare in alcun modo l’equilibrio della reciproca convivenza.
Nelle loro tribù, i bambini crescevano in uno stato di grazia, dove la scuola era la vita e la vita quotidiana era la scuola, protetti e completamente liberi allo stesso tempo.
I wintke, gli omosessuali, erano emarginati dalla vita militare, ma considerati, proprio in ragione della loro diversità, depositari di poteri profetici e insondabili misteri.
I Nativi erano raccontatori infaticabili, e inguaribili pettegoli.
Ogni tanto scoppiava qualche scaramuccia tra tribù, ma c'era più esibizione simbolica di potenza che voglia reale di violenza.
Ogni tanto arrivava per caso qualcosa di nuovo (una novità per tutte: il cavallo, che i Nativi non conobbero fino all’inizio del 1700), ma le tribù si abituavano alle novità con calma, metabolizzandole nei decenni.
Su quella enorme fetta di pianeta era da tempo arrivato un altro popolo, ben diverso, mosso da inquiete fedi e religioni: generalmente insoddisfatto di quello che aveva, e creativo per ansia, questo popolo si muoveva, si agitava, "aveva obiettivi", e li inseguiva con determinazione, plasmava la materia e il territorio trasformandoli incessantemente, come se il pianeta su cui viveva gli risultasse insopportabile.
Dal 1804, quando la prima spedizione di Meriwheter Lewis e William Clark inviata dalla Casa Bianca aveva attraversato l’Oregon Trail, diretta all’Oceano Pacifico, Nativi e Uomo Bianco si erano guardati a distanza, ma senza innescare la miccia della violenza.
C. M. Russell - Lewis e Clark sul fiume Columbia, 1905
Tra indifferenza e disprezzo, i Nativi guardavano ai primi carri che si sfasciavano nel fango e nella neve con divertita curiosità, e i Bianchi consideravano gli Indiani come bizzarra fauna o selvaggina, da allontanare, come i coyote, se si avvicinava troppo ai carri.
Solo dal 1842, quando cento carovane erano partite dal fiume Missouri verso il West e le terre dell’Oregon, il sangue aveva cominciato a scorrere più abbondante.
Perché, sfortunatamente, quella specie di Siberia – una terra dura, avara, gelida e senz’alberi – che i contadini irlandesi, tedeschi, scandinavi attraversavano coi loro carri, per i Nativi, e in particolare la grande tribù Sioux, non era affatto un deserto, ma la loro casa.
Infastiditi da questi “selvaggi” che sempre più spesso tormentavano le carovane, rubando, elemosinando, razziando, a volte uccidendo, i pionieri avevano chiesto la protezione delle Giacche Blu, i soldati federali. Il governo degli Stati Uniti convocò le tribù di Nativi a Fort Laramie, il 17 settembre 1851 – quel 1851 da cui siamo partiti – per firmare un accordo che avrebbe, nei piani di Washington, sistemato per sempre il problema del transito nella Grande Prateria.
Pittura su pelle di bisonte che ricorda il trattato di Fort Laramie del 1851
La negoziazione si svolse con i Nativi in posizione di chiaro svantaggio: non potevano negoziare a nome di tutte le loro tribù (solo le principali tribù Sioux erano sette, per un totale di circa centomila individui; e in più c’erano rappresentanti Cheyenne, Aràpaho, Crow, Assiniboin, Mandan, Idatska e Arikara), erano in difficoltà sia comunicative (potendosi basare solo sulle traduzioni di un interprete mezzosangue), sia, soprattutto, concettuali: ovvero cedere diritti su una terra che è sempre stata propria.
Il trattato, alla fine, stabilì che gli indiani avrebbero concesso il libero, indisturbato passaggio dei pionieri bianchi lungo l’Oregon Trail, in cambio di cinquantamila dollari all’anno (una bella somma), di viveri, coperte, e della assoluta, inviolabile garanzia di sovranità indiana sul territorio che le tribù già popolavano. “Fino a quando l’erba crescerà e l’acqua scorrerà”.
A Washington sembrò un affare: per qualche dollaro e un po' di lana, avevano un passaggio libero in un territorio gigantesco. Alla nazione Lakota-Sioux, sembrò un affare ancora migliore: in cambio del passaggio di quattro straccioni bianchi sulle loro carrette di legno, avevano ottenuto, dal Governo Americano, viveri e soldi in eterno. Per sette anni, bastò a tutti.
(Fine prima parte - continua!)