Diario di viaggio: Umbria - parte 2
La seconda parte del mio viaggio in Umbria è cominciata dal paese di Cerqueto. Cerqueto, che a dispetto di un’inversione sillabica neanche troppo oscura significava Querceto, sorge su un’altura, a una ventina di chilometri da Perugia, una zona dove però, già da un pezzo, gli ultimi capannoni e caseggiati frammentari della periferia industriale del capoluogo sono stati soppiantati, sostituiti, e direi quasi divorati, da un’indistinta e onnicomprensiva massa verde. Non è facile misurare la quantità di verde presente in Umbria, per di più all’inizio di un maggio in cui piove quasi ogni giorno; ancora meno facile è quantificare il numero di differenti tonalità di colore verde che possono manifestarsi (per quante se ne conoscano, ne spuntano altre, fino a quel momento ignote); e meno facile ancora è continuare a voler bene a questo colore, in primo luogo perché non è più un colore, ma appunto un tono scisso in una miriade di variazioni sul tema, in secondo luogo perché si ha la sensazione di esserne assediati, e si potrebbe provare della nausea.
Ma dicevamo: il vecchio Querceto, ad oggi, semplicemente, Cerqueto. Da almeno nove secoli, affermano le guide, sorveglia lo spartiacque tra le valli dei fiumi Nestore e Tevere (non provassi la dovuta suggestione/sottomissione al sacro fiume imperiale, e dipendesse solo dal nome, non avrei dubbi su quale dei due corsi d’acqua adorare). Cerqueto rientrava in quel sistema di insediamenti murati sulle colline occidentali della valle del Tevere, a salvaguardia dei collegamenti verso Orvieto, Roma e la costa tirrenica. Almeno quattro volte, nel corso del Quattrocento, le mura del castello di Cerqueto vennero restaurate a spese della città di Perugia, e se questo, da un lato, potrebbe dimostrare un’imperizia da parte degli architetti, o comunque una speciale deperibilità dei materiali (il Quattrocento: secolo dei subappalti?), dall’altro decreta senza dubbio una centralità del paese, scelto infatti, nel 1480, come sede della magistratura perugina dei Capitani del contado di Porta San Pietro. Bene: se anche voi, come me, sentendo la parola Perugia pensate non alla Perugina (per quanto possiate apprezzare il fondente, e gli stessi Baci), ma a Pietro Vannucci, al secolo Perugino (o al massimo, a Serse Cosmi, agli Ingrifati e a generici concetti di altitudine), Cerqueto è un luogo significativo. La chiesa parrocchiale, esistente almeno dal 1163, e menzionata come chiesa di “castrum Cerqueti” in un diploma imperiale di Federico Barbarossa, conserva ancora oggi un “San Sebastiano tra i Santi Rocco e Pietro”: è la prima opera firmata e datata di Perugino. San Sebastiano diventerà un suo soggetto ricorrente (il più famoso, databile al 1495, si trova oggi al Louvre), ma l’affresco di Cerqueto rappresenta un momento importante: Perugino non aveva ancora trent’anni, era appena tornato da Firenze - e dalla formazione d’eccellenza, fianco a fianco con Leonardo da Vinci, nella bottega di Verrocchio - per re-importare nella sua terra d’origine il nuovo linguaggio. Quel linguaggio che avrebbe trovato compimento, di lì a poco, negli affreschi della Cappella Sistina in Vaticano, e che avrebbe costituito la principale influenza e ispirazione per il giovane Raffaello Sanzio.
Perugino (Pietro Vannucci) - Martirio di San Sebastiano. Cerqueto, 1478 ca
Ma passiamo oltre: non di sola arte vive l’essere umano, giusto? No, ingiusto; e però vero, quindi procediamo. Scendendo su piani più prosaici, del mio saluto al grazioso paese di Cerqueto conservo due dettagli, entrambi indici di un certo coraggio: un tramezzino carciofini e salmone (nulla di sbagliato: solo, un accostamento inusuale) e una bandiera della Juventus fuori da una casa. Il tempo di riprendermi, e già esulto per l’inatteso incontro con una mia ossessione: le panchine pubbliche. Chi condividesse questa ossessione saprà benissimo che i capisaldi letterari di noi panchinòfili sono Panchine, di Beppe Sebaste, e in generale (come argomento più che ricorrente, anche se non localizzabile precisamente) l’opera omnia di Gianni Mura. Nelle mie riflessioni sulle panchine un posto d’onore lo occupa Firenze, la cui panchinologia è senz’altro interessante. Ad esempio le panchine di piazza Sant’Ambrogio: due casse da morto che però sembrano disegnate da un archistar, prive di schienale, buttate a caso tra il sagrato e l’edicola. Oppure le panchine di piazza Santa Maria Novella: lunghissimi piani-cottura in metallo riflettente, senza schienale, inservibili (perché gravemente ustionanti) da aprile a ottobre, inservibili (per pioggia o congelamento lastre) da novembre a marzo; ma ottime per rosolatura di fiorentine (signore o bistecche che siano) all’aperto. Oppure le panchine della stazione di Santa Maria Novella: che non esistono. Per essere onesti, sedersi è concesso: solo che, nell’area riservata ai viaggiatori che hanno esposto regolare biglietto, l’unico modo per sedersi in caso di attese prolungate - in effetti quasi impossibili: i casi di ritardo sono, ehm, estremamente rari - è poggiare metà sedere sulla sbarra di ferro posta quasi ad altezza suolo che è parte del basamento degli stessi tornelli; l’altro modo consiste nel camminare lungo i binari per circa otto chilometri: dove ci s’imbatterà, come una fonte che zampilla nel deserto, in due (2) gelide panche di travertino; senza schienale. Oppure, e giuro che è l’ultimo esempio, le panchine di piazza D’Azeglio: panchine normali! Provviste di schienale! Senza design del - chiedo scusa - cazzo! Circondate da platani secolari! Ma perché mi sto dilungando? Perché a Pietralunga, paese perso nel cuore (uh: verde) dell’Umbria, ho avuto il privilegio d’incontrare panchine mai viste prima. Queste:
Pietralunga (Pg) - panchina.
Una panchina di legno chiaro, dal design sobrio, dalle linee sinuose, che mi sarei aspettato di vedere non tanto a Pietralunga, quanto a Firenze. Si può notare un significativo risparmio nei materiali: un blocco unico, anziché due panchine distinte. Si può notare che la panchina poteva avere tranquillamente il doppio dei posti, ma così, possiamo controbattere, si sarebbe sacrificata l’idea del progettista, un concetto che ci sembra essere definito dalle linee suadenti, quella curvatura dolce che, prima ancora che un limite spaziale, sprona all’incontro con l’Altro (l’Altro che, si suppone, non potendo sedersi accanto, per evidente mancanza di spazio, si è seduto dalla parte opposta); e in ogni caso non si può avere tutto.
Parlerei di panchine all’infinito, credo si sia percepito, e solo con uno sforzo abnorme rivolgerò adesso la mia attenzione ad altro. Per l’esattezza, a singole immagini di questa regione. Ad esempio, la porta di un palazzo aperta su un androne molto curato dove è parcheggiata una Cinquecento per bambini. Forse lo stesso bambino che, al momento, per i suoi spostamenti deve ricorrere al passeggino?
Pietralunga (Pg) - androne.
La Piazza Grande di Gubbio deserta e lucida di pioggia; una piazza-terrazza, sorvegliata dalla mole bianca del palazzo dei Consoli e aperta su buona parte della grande valle che da Città di Castello si allunga fino a Spoleto.
Gubbio, piazza Grande
Per concludere questa seconda parte del racconto di viaggio (è possibile che ce ne sarà una terza; è possibile anche che sia finito tutto qui), una lista di nomi adorabili di luoghi veri, e tutti assolutamente umbri:
Pierantonio, Maritonda, Bonsciano, Promano, Ranco, Titta, Gioiello, Mengaccini, Pilonico Materno, Grutti, Morcicchia, Francocci, Battiferro, Appecano, Baucche, Calvi dell’Umbria.