Bozeman Trail (parte 2)

Jim Bordeaux era il classico frontierman, arrivato dalla Francia.

Si era adattato a vivere all’estremo della colonizzazione bianca, aveva sposato una ragazza Lakota, una Oglala, e aveva fatto fortuna commerciando onestamente in pelli, monili, artigianato Sioux contro coperte di lana, coltelli, caffettiere, e dollari d’argento, monete per cui gli indiani andavano pazzi: battuti e appiattiti, diventavano facilmente grandi orecchini luccicanti, bellissimi da appendersi ai lobi.

Gli indiani stimavano Jim Bordeaux; era un loro amico.
Un giorno di inizio primavera 1858, un ragazzino Sioux entrò nel suo piccolo emporio, e gli porse una pietruzza lucente che aveva trovato giocando in giro sui fianchi boscosi delle Black Hills.
“Questa cosa non serve a niente”, disse Bordeaux, “ma può costare la vita a molti uomini. Portala subito a padre De Smet, il missionario. Questa è cattivissima medicina. Capito? Cattivissima medicina”. Il ragazzo corse, e il missionario, appena ricevette la pepita, ebbe un brivido e la gettò in un lago profondo. Le Black Hills erano piene d’oro, sia Bordeaux che De Smet sapevano cosa sarebbe potuto succedere una volta che i bianchi lo avessero scoperto.

Per Jim Bordeaux quella del 1858 era una primavera strana, inquietante, anche per un altro motivo: nessuno dei tantissimi Lakota che ogni anno, al disgelo, scendevano al suo emporio per commerciare ogni genere di beni si era ancora presentato, e giravano voci che avessero lasciato i villaggi, che fossero scomparsi.

Cosa dicevano quelle voci corse lungo terre immense grazie al telegrafo rosso, cioè l’unico modo possibile, di bocca in bocca, tra gli indiani che si muovevano lungo le piste, e arrivate infine, non si sa quanto distorte, all’emporio di Bordeaux?
Dicevano che le sei tribù Lakota erano arrivate stremate alla fine dell’inverno più duro di sempre. Che nella “Siberia americana” in cui da sempre abitavano, quella compresa tra i fiumi Platte e Missouri e chiusa dalle Black Hills, dove si doveva trovare di che vivere anche nei lunghi mesi di temperature gelide, per la prima volta alla fine dell’inverno non si era sentito il chinook, lo scirocco del sud che annunciava la fine degli stenti, l’inizio delle cacce e della bella stagione.
Dicevano che le tribù delle grandi praterie del nord, le stesse che fino a pochi anni prima si sentivano padrone della loro terra e del loro destino, si erano ridotte a un popolo di morti di fame e disperati allo stremo.

Ma loro non erano scomparsi, avevano solo seguito la loro fonte di vita, ciò che da sempre avevano vicino, e che garantiva loro la sopravvivenza e prosperità: fratello bisonte. Erano loro, i bisonti, che per primi se n’erano andati.

Il bisonte, dunque. Un bovino alto quasi due metri, pesante anche mille chili, che appena annusava aria di minaccia muoveva istintivamente un branco di migliaia di individui e cominciava a trottare. Un animale che veniva cacciato in corsa, a cavallo, con frecce e lance come uniche armi, e che non poteva essere colpito né sulla testa, provvista di un doppio cranio, né sulla pelle durissima del corpo, ma solo in un punto, sopra la spalla sinistra, per arrivare al cuore. I cacciatori Lakota, lanciati al galoppo, dovevano correre insieme alle loro prede, accostarsi ai tori più all’esterno, mettersi al passo, e cercare di scivolare nelle file più interne, dove correvano gli esemplari più deboli: entrare nella traiettoria di corsa di un solo bisonte significava essere disarcionato e finire tritato dagli zoccoli della mandria. Tutto il contrario di una corrida: in molti morivano per il privilegio di portare cibo alla tribù, si combatteva ad armi pari, e solo per la sopravvivenza. Finita la caccia le donne, circondate dai bambini, scuoiavano e trasformavano la pelle in coperte o copertura delle tende, affettavano filetti, controfiletti e spalle, lavoravano le interiora. Dalle corna, una volta scavate, sarebbero stati ricavati mestoli, cucchiai e utensili da cucina. Gli scalpi, con i loro ciuffi crespi e ruvidi che agli indiani, qualche decennio dopo, sarebbe parso di rivedere nei capelli dei primi soldati neri inviati nei contingenti di guerra (per questo li avrebbero battezzati Buffalo soldiers), diventavano copricapi per battaglie e cerimonie. Lo sterco, seccato e compresso, era il combustibile del fuoco.

Prima di chiudere la giornata della grande caccia, di piantare le tende e concedersi un banchetto di festa, i capi, gli sciamani e i medicine men sceglievano l’esemplare più grosso e lo offrivano al grande spirito in segno di riconoscenza per quel cibo e di rammarico per quella morte.
Fu per seguire il bisonte, probabilmente, che le prime tribù asiatiche attraversarono lo stretto di Bering arrivando sul continente americano, e fu il bisonte che alcuni uomini dipinsero, come una divinità, sulle pareti delle grotte di Altamira; e senza questo animale al centro della vita, i Lakota, e tutti i Nativi, erano destinati al peggio.

Bisonte di Altamira, pittura rupestre, 18500 - 14000 a.C., Altamira, Cantabria, Spagna

I bisonti, però, non erano scomparsi: gli esploratori Lakota avevano ritrovato i branchi. Erano molto lontano dalle Black Hills, presso un’altra catena montuosa, il Bighorn, da cui scendeva un torrente che nella storia americana avrebbe avuto, in seguito, una fama paragonabile al Rubicone, al Piave, al Volga nella storia europea.
La buona notizia era che il bisonte c’era ancora. Le cattive notizie, però, erano due: il bisonte aveva abbandonato la Strada Sacra perché le lunghe carovane di bianchi che ormai avevano accesso libero sull’Oregon Trail e che lo percorrevano da est verso ovest, avevano tagliato e spezzato in due i loro pascoli; e le nuove terre verso nord-ovest, dove gli animali si erano stabiliti in cerca di pace, erano le terre dei Crow, degli Aràpaho, degli Shoshoni: per riavere indietro la vita di sempre, i Lakota avrebbero dovuto scendere in guerra.

Queste furono, prima della guerra, le parole del capo Colui che fa paura:

Indossate la camicia sacra, figli del popolo Lakota, e sia il vostro cuore grande, sempre teso ad aiutare gli altri e mai chiuso su voi stessi. Proteggete i poveri, le vedove, gli orfani, e tutti coloro che non hanno forza e potere. Non pensate mai male degli altri e non guardate al male che gli altri fanno a voi, neppure se spargono il sangue di un vostro familiare… e quando il nemico muoverà contro di voi, non esitate a muovere contro il nemico, perché è meglio essere un guerriero nobile che muore nudo, piuttosto che un vigliacco che vive ben vestito con un cuore d’acqua dentro il petto

Tȟašúŋke Kȟokípȟapi, capo Oglala conosciuto anche come “Il suo cavallo fa paura”, o “Colui che fa paura”

La pressione dei coloni europei si stava alzando, come una marea per il momento quasi invisibile. Nel trattato di Fort Laramie del 1851 i bianchi erano stati generosi, concedendo Agenzie delimitate (avrebbero poi preso il nome di “riserve”) dove gli indiani potevano vivere liberi, senz’armi, certo, ma sovvenzionati in tutto dagli Agenti del Governo, in cambio del diritto di libero transito e di insediamento in tutte le aree non coperte dalle agenzie; e non capivano come le tribù indiane potessero rifiutare questa generosità.

La distribuzione dei fondi e i pagamenti in natura agli indiani dipendeva dagli Agents, gli agenti governativi (Tex Willer stesso lo era, tra i Navajos; e nei suoi albi, i suoi colleghi bianchi erano spesso raffigurati come i personaggi peggiori): impiegati pubblici strappati dagli uffici e spediti nella frontiera più selvaggia, inospitale e pericolosa, a quel punto con una carriera spezzata e una famiglia in frantumi (nessuna moglie si sarebbe accollata una vita vicino ai pellerossa descritti dai romanzi feuilletons e dalle cronache fittizie come stupratori e assassini). Al frustrato burocrate il governo federale metteva in mano somme di denaro enormi, da utilizzare per l’acquisto di beni e vettovaglie per legge destinate agli indiani, in una landa selvaggia, a tremila chilometri dai ministeri, con ispezioni di controllo rarissime e preannunciate con largo anticipo. Dove non arrivava l’avidità degli Agenti, che ovviamente privavano gli indiani (e i patti) delle loro materie prime ogni volta che potevano, ci pensavano i taglialegna, i cacciatori di pellicce e i trappolatori inviati dalle società commerciali americane, e i traders che cominciarono a importare bevande sconosciute a quelle latitudini, una per tutte il whisky.

Tex, numero 256 - Indian Agency

Mentre la loro terra cominciava a essere percorsa stabilmente da questo tipo di personaggi, i Lakota combatterono, e vinsero.
Dopo essere stati costretti a lasciare le pianure sotto le Black Hills, avevano recuperato territori di caccia piegando in battaglia i nemici Crow, Aràpaho, Shoshoni, ma sorse presto un nuovo problema.

Nel 1862, dalle deludenti miniere del Colorado, un trappolatore e cacciatore di pelli di nome John Bozeman, dopo aver captato certe voci su pietre lucenti affioranti ovunque, era partito verso il nuovo Eldorado: i campi auriferi del Montana, intorno a Virginia City. Le uniche alternative di percorso, a quel tempo, erano praticamente improponibili: risalire il fiume Missouri fino alla sorgente, in un periplo infinito, o farsi tutto l’Oregon Trail da sud e poi puntare per centinaia di chilometri verso nord; ci voleva una strada nuova, che tagliasse le montagne in diagonale. Bozeman e il suo socio Jacobs videro il futuro: il loro sentiero, il Bozeman Trail, sarebbe nato ad ogni costo, e sarebbe stato la chiave del boom dell’oro. Non c’era che da penetrare nei nuovi, vitali territori di caccia che gli Oglala Sioux, con Cavallo Pazzo alla guida, avevano appena conquistato.

(Fine parte 2 - continua)

 

Avanti
Avanti

Bozeman Trail (parte 1)