Bozeman Trail (parte 3 - la fine)
Nel 1864, dopo molte scaramucce tra Cheyenne (alleati dei Sioux) e bianchi, e dopo il decreto del governatore del Colorado Evans che prometteva denaro e terre a chi avesse “ucciso e distrutto” gli indiani, venne mandato John Chivington a “pacificare”.
Il Governo, impegnato nella guerra civile e nella rivolta sudista, non riusciva a controllare il West, e delegò il presidio di un’immensa terra a singoli personaggi, volunteers, avventurieri, mercenari, disertori, tagliagole, milizie improvvisate di pioneri e vigilantes.
Pentola Nera, capo di una tribù Cheyenne sempre rispettosa degli accordi, si credeva in pace coi bianchi, e quando vide la colonna di ottocento Colorado Volunteers capitanati da Chivington, armati fino ai denti, non presagì nulla, anzi: accolse la colonna sventolando la bandiera stelle e strisce, in segno di pace.
Ne venne fuori la strage del Sand Creek: 220 morti, di cui 170 fra donne, vecchi, bambini.
Trascorsero mesi di ubriacatura di sangue ed esaltazione patriottica, poi ci fu un’inchiesta, presieduta dal (vero!) Kit Carson. Che definì Chivington e i suoi “cani e vigliacchi”, anche se non furono comminate sanzioni penali, né disposti risarcimenti.
È sempre arbitrario stabilire il punto di svolta di una guerra: Stalingrado, El Alamein, l’offensiva del Tet sono date ed eventi convenzionali. Ancora più difficile è stabilirlo per una lotta confusa, impari e frammentaria come fu quella tra bianchi e nativi, ma senz’altro il punto di non ritorno ci fu tra 1864 e 1865.
Lungo il fiume Platte e l’Oregon Trail, insieme ai cercatori d’oro, arrivarono i pali del telegrafo, i fucili a retrocarica e le mitragliatrici Gatling da duecentocinquanta colpi al minuto, i battelli lungo il Mississippi e Missouri, gli immigrati, che si facevano strada a Ovest ben oltre i limiti fissati dai patti, mentre il Sentiero di Bozeman, ormai, era una vera strada, munita di forti e accampamenti. E il treno, il cavallo di ferro della Pacific Railroad.
Treno sulla Southern Pacific Railroad, 1860 circa
Nel 1869 fu tempo di un nuovo trattato, sempre a Fort Laramie. C’era scritto:“Gli indiani potranno abitare le loro terre fino a quando ci saranno bisonti sufficienti per giustificarne la caccia.”
Data l’impossibilità di bloccare la crescita dell’erba e lo scorrere dell’acqua - i termini del primo trattato di diciassette anni prima - , si pensò a qualcosa di meno eterno: e da subito il Governo fu pronto a organizzarsi per annullare il trattato: bastava sterminare i bisonti.
Tra episodi leggendari (Buffalo Bill che da solo ammazza cento bisonti in un giorno) e scenari deprimenti (la caccia viene proposta come safari turistico: le signore col cappello bianco potevano sparare dai finestrini del treno), alla fine del secolo, al posto dei cinquanta milioni di bisonti di inizio Ottocento, sullo stesso territorio ne rimasero meno di mille.
Prima ancora che il trionfo Sioux di Little Big Horn contro Custer si configurasse come l’ultimo atto prima della fine, la resa dei nativi si racchiuse già nello storico discorso pronunciato da Nuvola Rossa alla firma dell’ennesimo trattato: “Fratelli della Grande Prateria, ora voi dovete ricominciare la vostra vita e dimenticare gli insegnamenti dei vostri padri. Per diventare come l’Uomo Bianco e per imparare a vivere nel suo mondo, dovrete imparare ad accumulare cibo e ricchezza solo per voi stessi, e dimenticare i poveri e gli altri uomini, che non sono fratelli, ma selvaggina da cacciare. Dovrete costruirvi una casa di legno e di pietra, e, quando la vostra casa sarà costruita, dovrete guardarvi intorno e cercare quale altra casa e quali ricchezze potrete portare via al vostro vicino. Perché questa è la maniera dei bianchi e questo è il mondo nel quale il nostro popolo ora dovrà imparare a vivere e sopravvivere”.
Nuvola Rossa, capo Oglala, 1905 circa.
Mentre leggevo queste parole, me ne venivano in mente altre, di Italo Calvino, non riferite a quell’epoca né a quello scontro di civiltà, ma che ho creduto, forse sbagliando, di percepire come universali:
Stiamo vivendo al tempo delle invasioni barbariche”, scriveva Calvino nel 1980. “È inutile che vi guardiate intorno cercando di identificare i barbari in qualche categoria di persone. I barbari questa volta non sono persone, sono cose. Sono gli oggetti che abbiamo creduto di possedere e che ci possiedono; sono lo sviluppo produttivo che doveva essere al nostro servizio e di cui stiamo diventando schiavi; sono i mezzi di diffusione del nostro pensiero che cercano di impedirci di continuare a pensare; sono l’abbondanza dei beni che non ci dà l’agio del benessere ma l’ansia del consumo forzato; sono la febbre edilizia che sta imponendo un volto mostruoso a tutti i luoghi che ci erano cari; sono la finta pienezza delle nostre giornate in cui amicizie affetti amori appassiscono come piante senz’aria e in cui si spegne sul nascere ogni colloquio, con gli altri e con noi stessi.
Italo Calvino
Dal panico del 1873, quando cominciò la crisi economica che, fra alti e bassi, non avrebbe mollato fino al 1929, la corsa all’oro attraverso il Bozeman Trail diventò la ragione di vita per decine di migliaia di pionieri, avventurieri, commercianti, soldati, sbandati.
Charles Windolph, un giovane prussiano fuggito dalla Germania, nell’estate del 1874 fu uno dei primi occidentali a vedere le Black Hills. Scrisse sul suo diario queste impressioni: “Marciavamo in un paesaggio di incredibile bellezza, tra vette di granito e foreste di pini attraversate da ruscelli di acqua limpida, popolate di ogni animale che Dio avesse mai posto sulla terra, orsi, lupi, cervi, bisonti, aquile, falchi. Bastava allungare la mano per cogliere un frutto, o tirare il grilletto del fucile per abbattere qualcosa, e ogni sera il generale ordinava alla banda di suonare per noi, sotto le stelle del West”.
Scorcio attuale di una porzione della “Black Hills National Forest”. Foto proposta da un’agenzia di viaggi
Per il 31 gennaio 1876 il Governo stabilì un ultimatum: gli indiani che non avessero accettato di consegnare le armi, sarebbero stati considerati in guerra con gli Stati Uniti.
Dal totale confinamento nelle riserve, al definitivo epilogo di sangue di Wounded Knee, non sarebbero passati che quattordici anni; in meno di trenta, il problema indiano era stato risolto.
Potremmo, per concludere questa storia, avere la tentazione di riconoscere la ciclicità e la ricorrenza di alcune evidenze:
riconoscere che nella storia umana ricorre il ricatto tra la sottomissione (dunque: farti schiacciare dal più forte) e la ribellione armata (dunque: dare al più forte la scusa per eliminarti);
ricorrono le narrazioni mediatiche asimmetriche (secondo arcaici principi di immedesimazione per cui una parte parte possiede volti, nomi, storie individuali; l’altra no);
ricorre la promessa di commissioni d’inchiesta, da parte del più forte, in seguito ai massacri più efferati;
ricorrono le lobbies, le industrie e le compagnie che fanno dei nuovi territori conquistati la base di grandi profitti e “sviluppo”.
Ricorre il disequilibrio: tecnologico e militare in primo luogo, politico in secondo luogo (alleanze, finanziamenti, potenza degli “amici” o dei nemici);
infine, al fondo e al centro di tutto, ricorrono i patti non rispettati, l’avanzata del più forte che, nel futuro prossimo, ignorando i limiti imposti dai trattati, farà della propria avanzata un fatto compiuto, stabile, da cui non si torna indietro.
Ci sarà poi un futuro più lontano, in cui il nuovo proprietario trasformerà quei luoghi con il suo lavoro, magari un buon lavoro: ottimizzazione, modernizzazione, efficienza. Li migliorerà secondo la sua visione, li metterà a profitto, includerà musei commemorativi: e certamente resterà l’unico depositario della narrazione, e della sicurezza morale su ciò che doveva essere, e che – come prescritto dal Manifest Destiny – infine è stato.
Potremmo avere questa tentazione, ma riconoscere troppi ricorsi nella storia non è consigliabile.
Restano, infine, le parole di Piccola Foglia, Sioux Oglala, studiosa contemporanea di storia indiana.
“Lo scontro derivava da due visioni del mondo opposte e incompatibili, una concezione della vita che si incarnava nella “cultura dell’essere” rappresentata dagli indiani, soddisfatti di essere quello che il Grande Spirito aveva voluto, e la “cultura del divenire” degli inquieti europei, perennemente alla ricerca del cambiamento, di qualcosa di nuovo e di diverso.
Per gli indiani la Terra era già il paradiso, il luogo creato dagli spiriti anche per l’uomo, per la sua pace e il suo sostentamento, che l’uomo non aveva alcuna esigenza di cambiare.
Per i bianchi, cristiani, la Terra era l’inferno, la selva oscura, il luogo dell’esilio temporaneo dove Dio li aveva confinati cacciandoli dal Paradiso Terrestre; un luogo di peccato e miserie, un travagliato cammino da percorrere mirando al ritorno all’Eden”.