Piero della Francesca e Sansepolcro
Fino a non molti anni fa di Sansepolcro, città fatta di pietra serena grigio-azzurra e di bionda pietraforte arenaria (simile, in questo, a Firenze), solo una cosa mi aveva colpito: la bellezza del nome.
Fino a non molti anni fa (trenta tondi, per la precisione) l’Italia aveva come ministro dei beni culturali Antonio Paolucci, e il fatto che comunque, anche allora, ci considerassimo “in declino” può dirci alcune cose su di noi, sul nostro paese, sulla nostra percezione di declino e su quanto le nostre percezioni possano essere, diciamo così, costantemente in divenire e necessarie di aggiornamento.
Fino a non molti anni fa, di Piero della Francesca, una cosa in particolare mi aveva colpito: i volti stupendi dei suoi (frequenti) personaggi addormentati
Piero della Francesca, Resurrezione (dettaglio), 1458-1474 circa, Sansepolcro, Museo Civico
Piero della Francesca, Pala di Brera (dettaglio), 1472 circa, Milano, Pinacoteca di Brera
Piero della Francesca, Il sogno di Costantino, 1452-1466, pittura murale, Basilica di San Francesco, Arezzo
Sansepolcro era una specie di baricentro degli equilibri geopolitici rinascimentali: oltre le colline a occidente, c’era Firenze; scavalcati gli Appennini dalla parte opposta, a nord e a oriente, c’erano i signori della guerra: i Montefeltro di Urbino, i Malatesta di Rimini.
Firenze, nel pieno (sia a livello artistico, che politico, che militare) della sua lunga fase aurea, aveva tutto l’interesse a controllare Sansepolcro, e a metà 1400, ricorrendo a una pratica al tempo perfettamente legale, la comprò.
Col senno di poi, Sansepolcro sarebbe stata anche un incredibile baricentro per la storia dell’arte: a distanza di venticinque chilometri, a Caprese, sarebbe nato Michelangelo; a Urbino, giusto al di là di Bocca Trabaria (cioè il passo appenninico che collegava la valle del Metauro con la Valtiberina), sarebbe nato Raffaello (e suo padre, Giovanni Santi, sarebbe stato tra i massimi estimatori di Piero della Francesca); a distanza di alcune strade carrabili verso sud, poi, c’era l’Umbria di Pinturicchio e Perugino.
Di nessuno dei grandi artisti sopra elencati si sa poco quanto di Piero. Di lui sappiamo che aveva casa e bottega nella parte storica di Sansepolcro, quella che, a guardarla oggi, sembra rimasta identica a cinquecento anni fa. Sappiamo che era un notabile, un consigliere comunale, che aveva proprietà, poderi, e abitava uno stabile grande un intero isolato. Sappiamo che fu tra gli allievi di Domenico Veneziano, in aiuto per la decorazione del coro di sant’Egidio (1439) a Firenze, capitale assoluta, all’epoca, del contatto artistico intergenerazionale (tramite le migliori botteghe e i migliori maestri) e di qualsiasi sperimentazione tecnica.
Così come la speciale collocazione geografica faceva della sua città natale la linea di confine tra Umbria, Romagna e Marche, mi piace pensare che, allo stesso modo, Piero della Francesca sarebbe diventato ai nostri occhi, al termine di un oblio lungo almeno fino all’età romantica, il centro di gravità ideale tra gli stili di tutti i geni della pittura nati nei luoghi vicini.
Piero fu forse il primo a fondere la lezione fiamminga (nella resa fotografica dei particolari, nell’uso della luce e nell’elevazione del paesaggio a co-protagonista delle opere) con quella fiorentina (nella prospettiva e nel primato del disegno), unendo a esse qualcosa di personale e incredibile: la sospensione, quella specie di impassibilità delicata e sacrale.
I mantelli aperti delle Madonne che dipingeva, come i baldacchini e le tende aperte, erano un dato spaziale di profondità e al tempo stesso un luogo spazioso, protetto, una forma di abbraccio.
Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, 1445-1462, Sansepolcro, Museo Civico
Piero della Francesca, Madonna del parto, 1455 circa, chiesa di Monterchi (AR)
Il Museo Civico di Sansepolcro (un museo che a noi sembra normale, persino piccolo, ma che, sono sicuro, se lo avessero in Germania…) è quello con il più alto numero di opere di Piero della Francesca al mondo, ben quattro (e sarebbero cinque, se considerassimo dentro, come vorrebbe Vittorio Sgarbi, anche il San Sebastiano). Oltre al Polittico della Misericordia, al San Giuliano e al San Ludovico di Tolosa, c’è la Resurrezione, un affresco che Aldous Huxley avrebbe definito “la più bella pittura del mondo”.
Nel corso del restauri del 2018, l’Opificio delle Pietre Dure, oltre a restituire all’affresco una qualità di luce semplicemente impressionante, ha stabilito con le indagini strutturali che la Resurrezione non è stata dipinta sulla parete su cui adesso la vediamo, ma che fu trasportata da un'altra sede – forse la facciata esterna del palazzo – con il suo allettamento di mattoni, e su questa nuova parete giustapposta. Il restauro, inoltre, ha permesso di ricondurre l'iscrizione frammentaria alla base dell'affresco alle parole di Seneca (Lettera a Lucilio): «OMNE HUMANUM GENUS MORTE DAMNATUM EST» Tutto il genere umano è condannato a morire.
Con il risveglio dell'interesse per Piero verso la metà dell’Ottocento, la Resurrezione venne riscoperta da viaggiatori inglesi e fu magnificata da Austen Henry Layard, che definì il Cristo di Sansepolcro come "dotato di una maestà terrificante e non terrena nel contegno, nei grandi occhi fissi nel vuoto e nei tratti malgrado ciò distesi".
Come osservò Antonio Paolucci, di eccezionale in Piero c’era la capacità di rendere naturale il sacro (di identificarlo con i misteriosi eventi che attraversano la natura) e di sacralizzare la natura; nella Resurrezione, Cristo è assimilato a un’alba che sorge (il rosa del mantello come il rosa della parte bassa delle nuvole) e al rinnovarsi del mondo: nella parte sinistra dell’affresco gli alberi sono morti, nella parte destra sono vivi, rigogliosi grazie alla nuova stagione.
Piero della Francesca, Resurrezione, 1458-1474 circa, Sansepolcro, Museo Civico
Il grande critico d’arte Bernard Berenson, che incidentalmente abitò per molti anni a Firenze nella zona di Vincigliata, cioè la più bella in assoluto dove andare a correre, scrisse in The Central Painters of the Renaissance, (1897): “L’impersonalità è il dono con cui Piero ci incanta; è la sua virtù più tipica, ed egli la condivide con due soli altri artisti: l’anonimo scultore dei frontoni del Partenone, e Velazquez, che dipinse senza mai tradire neppure un’ombra di sentimento. […] non fu impersonale soltanto nel metodo, come tutti i grandi artisti. Fu, come si dice comunemente, impassibile; cioè poco emotivo nelle sue stesse concezioni. Gli piaceva l’impersonalità, l’assenza di emozioni manifeste, come qualità delle cose. Avendo prescelto, per motivi artistici, tipi virili al più alto grado e, forse per motivi analoghi, un paesaggio della maggiore severità e dignità, combinò e ricombinò tali elementi, e questi soltanto, come esigevano i vari temi: in modo che le figure solenni, le azioni calme, i paesaggi severi esercitassero su di noi il loro massimo potere. Piero non si domanda mai che cosa sentano i suoi personaggi: le loro emozioni non lo riguardano”.
Concludo con una nota personale.
Non è propriamente semplice, in questo periodo, godere a cuor leggero di un gelato, di una birra, di una corsa, e nemmeno di un’opera d’arte.
Ogni giorno ringrazio la sorte di vivere in una terra che conserva una storia e delle opere del genere, e dove nessuno viene preso a fucilate mentre cerca di bere da una fontana.
Ogni giorno rivolgo un pensiero a chi viene fucilato mentre è in coda per l'acqua o per il cibo, e a chi, dai salotti televisivi o direttamente dalla spiaggia, ci fa sapere che non solo è inevitabile, ma anche giusto.
Portare sempre con sé l'arte e la storia della propria terra è il primo passo per non permettere mai agli autorevoli e rispettabili opinionisti liberali del futuro, quando decideranno che è inevitabile e giusto, di togliere acqua anche a noi.