Dì Cosa un’altra volta
L’entusiasmo per la recente nascita di questo blog di scrittura, e la pressione - di stampo tipicamente lombardo - verso l’operosità, mi portano a voler riempire lo spazio di contenuti. Di più: mi portano a riempirlo - sto notando - di contenuti che nella loro maggior parte riguardano la zona della bassa Maremma, in particolar modo la laguna di Orbetello. Spero di non esagerare, e mi sono riproposto, nel caso i prossimi dodici articoli dovessero riguardare argomenti con parole chiave tipo “Argentario”, “Neghelli”, “Feniglia” o “Susanna Agnelli sindaco”, di prenotare una visita presso uno specialista; ma per adesso continuo a seguire il mio maestro, che m’insegnò, oltre a quanto sia difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire, anche un precetto molto semplice: parla di quello che conosci.
E io, la prima volta che sono stato a Cosa, cioè un anno fa, non conoscevo Cosa. Risalendo il promontorio di Ansedonia attraverso salite mortali e stradine tipo “via delle mimose” e “via degli oleandri”, di fianco a ville con recinti laser e molossi realizzati con l’AI, ero entrato in un contesto che nel mio Paese pare ricorrente: un luogo non facilissimo da raggiungere, promosso poco e male, indicato da cartelli un po’ arrugginiti, il classico luogo dove “se non decidi di andarci apposta, non ci andrai mai”. Un luogo che, come si scopre appena dentro, custodisce magari una città romana in parte intatta, in cui si può entrare pagando un prezzo ridicolo (2 euro per visitare i resti della città E il museo; gratuito per la sola visita della città): il classico luogo che “Se fosse in Inghilterra o in Germania…”
Passeggiando per la prima volta tra le rovine dell’acropoli, del foro, delle torri di guardia, tra i laterizi della basilica e le cisterne ancora piene d’acqua, lo sgomento mi portava a dire “Cosa?” talmente tante volte, che ero sicuro sarebbe arrivato da un momento all’altro Jules Winnfield.
Pulp fiction, un attimo prima di “Ezechiele, 25, 17…”
E dunque, senza volerla far sembrare una domanda di Karl Popper a Ludwig Wittgenstein durante la visione conviviale di un film di Bunuel: cosa è Cosa?
L’antica città di Cosa sorge su un promontorio roccioso a 114 metri sopra il mare, e il mare è appena sotto, a strapiombo. La colonia fu fondata dai Romani nel 273 a.C., dopo la sconfitta delle forze alleate delle città etrusche di Volsinii e di Vulci (280 a.C.) e la conquista dell’intera fascia di litorale. L’area geografica che i romani, a quel punto, si trovarono a controllare, si estendeva per circa 550 kmq. Il nome derivò da quello più antico di Cusi, o Cusia, relativo a un piccolo centro etrusco disposto nella zona dell’attuale Orbetello. La posizione strategica e il carattere di fortezza, contraddistinta dal possente circuito murario, dipesero sia dalla minaccia che la potenza navale cartaginese costituiva per i Romani (la prima guerra Punica cominciò nel 264 a.C.), sia dalla necessità di tenere sotto controllo i territori etruschi di recente conquista, ancora non definitivamente sottomessi.
Facendo conoscenza con quest’area monumentale magica e con le persone che ci lavorano, mi ritrovo a pensare, e non è la prima volta, che i luoghi meno conosciuti e magari meno valorizzati - ma comunque di eccezionale valore - del nostro patrimonio artistico e archeologico abbiano alcuni tratti in comune: sono pressoché assenti dal dibattito pubblico (da quello politico, non ne parliamo); sembrano, e forse c’è un nesso con la frase precedente, vagamente fuori dal tempo, coerenti, in questo, con il respiro vasto e silenzioso dei secoli di cui sono testimoni; sono fuori dalle preoccupazioni della società, dal vortice delle notizie, dai Ministeri che dovrebbero occuparsene; presentano recinzioni di legno rovinato, a volte crollate e mai sostituite, a volte rinnovate da uno stanziamento estemporaneo di fondi europei; trasmettono un generico senso di trascuratezza e solitudine, come avamposti abbandonati dal potere centrale (vengono in mente la Fortezza Bastiani del Deserto dei Tartari, o l’ufficio di Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo, nel 1981); e in genere le persone che ci lavorano sono dei semi-volontari gentili e competenti.
Eccomi a camminare nell’antica città. L’area archeologica non è recintata: di notte è territorio di scorribande di cinghiali, tassi, daini, caprioli. A volte sono stati beccati dei tombaroli con i loro metal detector. Le staccionate sono precarie, l’erba tra i vialetti è incolta, se non ci fossero mura e case quasi intatte sembrerebbe un oliveto d’altura lasciato al suo destino.
Antico foro di Cosa
Cammino lungo la fitta griglia di strade che si incrociano ad angolo retto. Con l’aiuto della mappa riconosco, in corrispondenza dei vecchi edifici, l’atrium (cortile centrale), l’hortus (orto o giardino) sul fondo, i pavimenti in opus signinum (cocciopesto), i muri in mattoni crudi. Ogni abitazione aveva una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, e un pozzo - ancora esistente, visibile e pieno d’acqua anche in agosto - era stato creato presso una piccola vena sorgiva, l’unica in un promontorio per il resto privo d’acqua.
Si riconoscono ancora le aree pubbliche della città: l’acropoli, con funzione religiosa, e il foro, sede dell’attività politica della comunità. Nell’acropoli sono ancora ben conservati i resti del Capitolium, tempio dedicato alla triade capitolina (Giove, Giunone e Minerva), caratterizzato dalla cella interna tripartita, e i resti del piccolo tempio di Mater Matuta, dea dell’aurora, protettrice della vita nascente e della fecondità. C’erano le terme, il principale luogo di aggregazione e riposo: erano costruite e tenute in funzione da schiavi, ma anche gli schiavi potevano accedervi e goderne.
Il foro conserva resti degli edifici commerciali, e conferma come il progetto unitario e coerente di ristrutturazione di un territorio riguardasse anche infrastrutture (centuriazione, ponti, strade, porti…). Per risolvere le difficoltà di drenaggio della pianura costiera fu creata una rete di canali perpendicolari, con la stessa inclinazione del tratto terminale del fiume Albegna. L’attuale presenza di viottoli e canali di scolo, soprattutto nella valle di Capalbio, muniti della medesima inclinazione, mostra l’efficienza e la validità del controllo del regime idrografico, che fu in questa zona sempre problematico.
Capitolium di Cosa
Dopo la caduta di Roma (410 dC), Cosa potrebbe essere stata una fortezza bizantina posta a contrastare l’avanzata dei Longobardi. Risale forse a questo tempo il cambiamento del nome in Ansedonia. Prima di diventare, dagli anni Sessanta del Novecento, un gentile labirinto di seconde case per romani benestanti, Cosa-Ansedonia sarebbe passata ai Franchi e, per volere di Carlo Magno, donata come feudo all’Abbazia delle Tre Fontane di Roma (805). A partire dal X secolo un nuovo castello sarebbe stato costruito sull’estremità orientale dell’antica città romana. Tra il XII e XIV secolo tutta l’ area sarebbe passata attraverso le alterne dominazioni degli Aldobrandeschi, della Repubblica di Orvieto e infine della Repubblica di Siena, che la distrusse nel 1329.
Nel 2025, sempre più sorpreso della quantità di meraviglie di cui ignoro l’esistenza, e anche dell’incuria e indifferenza verso il nostro patrimonio (che a volte, però, può essere una fortuna: e permettergli di vivere liberamente, fuori dai riflettori) da parte di chi dovrebbe valorizzarlo, e anche della vista sul bosco della Feniglia di cui duemila anni fa dovevano godere i vecchi romanacci, in questo 2025, dicevo, da Cosa ci sono passato anche io.