Diario di viaggio: Umbria - parte 1
A distanza di qualche anno dall’ultima volta, ho avuto la fortuna di passare cinque giorni in Umbria accompagnando un gruppo di cicloturisti. È stato un viaggio di lavoro, dunque con tappe obbligate e possibilità di visita limitate; il viaggio era vincolato da una precisa successione di tempi e luoghi, e la mia esperienza doveva organizzarsi all’interno di un perimetro definito, ma proprio questo la rendeva interessante: avrei visto Città di Castello, Gubbio, Spoleto, un tabernacolo isolato in mezzo alla campagna, la periferia di Perugia, un bar di Cerqueto, in quel momento e solo in quell’esatto momento. Si può vedere come una limitazione, oppure - ed è stato il mio caso - una fonte di eccezionalità.
Naturalmente, per compiere un giro dell’Umbria che si rispetti, si deve passare per Perugia. Meglio: fare di Perugia il punto di partenza, e di arrivo. Anche questa volta Perugia mi ha sorpreso con la sua principale caratteristica: la qualità ascensionale. Si sale sempre, non c’è mai una fine alla salita, e anche quando la fine arriva, e sembra non ci sia più niente sopra, non è vero. Consideriamo che il punto più basso di Perugia sta più in alto rispetto al lago Trasimeno, che sta già di suo piuttosto in alto (260 metri sul livello del mare), e dal punto più basso di Perugia - un punto che, come appena detto, non è assolutamente basso - in poi, non c’è scampo: si può solo salire. Si sale per marciapiedi a prova di capra, per curve assassine al 20% di pendenza, per svincoli a tre corsie in salita progettati da ingegneri pazzi (pazzi per eccesso di salite), per gallerie buie che sfociano in nuovi svincoli, più alti, per viali bellissimi di tigli secolari che si snodano - verso l’alto - lungo una trentacinquina di tornanti (cinque meno dello Stelvio). La mia precedente esperienza risaliva a due anni fa, concerto di Paolo Conte all’Arena Santa Giuliana, un ex stadio situato veramente in alto, da cui, uscendo dopo il concerto con l’idea di “vedere il centro storico” malgrado gli avvertimenti delle altre persone (“Guarda che c’è da salire…”), avevo imboccato una rampa di scale mobili in salita, al chiuso, tipo galleria pneumatica, e le rampe, da una, erano diventate sei, e infine, uscito a riveder le stelle, si cominciava a distinguere, su in alto, qualche dettaglio del centro storico… Perugia: la più alta delle città invisibili.
A Città di Castello, dovendo passare del tempo in piazza delle Tabacchine, mi si è imposta una riflessione urbanistica. Piazza delle Tabacchine è gigantesca, più grande di un campo di calcio, una piazza che è un trapezio scaleno dove nessun lato è sotto i centoventi metri. Vediamo come è stata pensata: per due terzi (una superficie già immensa) pavimentazione in mattoncini di cotto a spina di pesce senza niente, cioè senza alberi, o giochi per bambini, o spazi dove sedersi, senza niente che non siano, ai lati, cinque panchine in cemento senza schienale, di quelle (sembra che adesso ne stiano progettando solo così) dove sedersi, più che un sollievo, è una sfida: vediamo se sei capace! Il classico spazio dove in inverno cammineresti solo se provvisto di un’assicurazione milionaria (o se esistessero scommesse) sulla rottura del femore, e che in estate, semplicemente, si liquefa, diventa lava. Proseguiamo: la superficie immensa è interrotta da un semicerchio in cemento lungo circa sessanta metri. Commistione vitruviana di figure geometriche? Citazione di Leonardo, che da Città di Castello sarà pure passato? No: è la cornice alta del parcheggio sotterraneo (posto, cioè, sotto la grande pavimentazione). Oltre la cornice, c’è un salto nel vuoto di due, tre metri, e il resto della piazza prosegue su un livello più basso. Una specie di depressione, o piccolo anfiteatro, dove si vede questo: un prato inselvatichito, il classico prato dove si porta il cane la mattina, da cui spuntano alcuni piccoli ruderi e muriccioli (romani? Oschi? Galli?). Una serie di scalette in terra battuta. Un altro prato, con l’erba alta mezzo metro, e delle panchine, inutilizzabili per via dell’erba alta - ma stavolta con un pregevole schienale - rivolte verso il parcheggio.
Il cartello d’ingresso a Gubbio recita "la più bella città medievale" ma non si offrono possibili comparazioni. La più bella città medievale d'Italia? La più bella città medievale dell'emisfero boreale? La più bella città medievale della provincia di Perugia? Accogliamo comunque l’invito, e insistiamo coi superlativi relativi. A Gubbio una delle parole meno usate al mondo (“bosone”) è una delle parole più ricorrenti, e dà il nome a una piazza, a un albergo e forse anche a dei bambini. La semifinale di Champions League più bella della storia si è conclusa con uno sconosciuto eugubino, nel frattempo diventato amico fraterno, che mi dice Nun de bruvà a nun veni a Gubbio be la Vinali (credo di poter tradurre con: “per scaramanzia, sarà bene assistere insieme anche alla finale”). L’edificio più brutto d’Europa (l’inconcepibile fabbrica delle Cementerie Barbetti) è circondato dall’aiuola più curata della galassia: una specie di giardino bidimensionale, lungo quattrocento metri e largo ottanta centimetri, percorso da chilometri di tubi per l’irrigazione a goccia, fitto di piante di alloro, rosmarino, santolina, gladioli e bocche di leone, dove lavorano costantemente alcune decine di giardinieri pachistani con l’obiettivo - meritorio - di abbellire un luogo assolutamente irrecuperabile.
Cementerie Barbetti, Gubbio.
Alcuni dei nomi più belli dei luoghi umbri da cui sono passato: Beroide, Scoppio, Piccione, Madonna della stella, Santo Chiodo, Parlesca, Mocaiana, Cipolleto. Il nome di fantasia più bello in assoluto, invece, lo ha dato involontariamente una cliente. Ha battezzato, con un lapsus, un luogo magico, forse sede già nell’antichità di giochi olimpici ed esibizioni di carattere agonistico, o magari ambientazione per un poema classico rimasto nella storia dell’epica: “Umbertìade”.
Alcuni dei nomi più belli delle strade umbre: vocabolo Colpernaco, via Sportella Marini, via Toschi Mosca, via Tifernate, via Fratelupo, via Orto degli Spiriti.
A Spello ci sono affreschi di Pinturicchio, e ne parlerò in un pezzo a sé. A Montefalco una cliente mi ha detto che l’Umbria è diversa dalla Toscana, diversa come, le ho chiesto io, non lo so, ha detto lei, diversa, forse, in una parola sola, “selvaggia”. I paesi, ha detto sono meno curati, però sono belli lo stesso, ha detto. Hai presente, mi sono sentito di dirle, i paesi toscani, anzi i borghi (dio mio: basta borghi) più curati, leccati, rifiniti? Sono morti. Non hanno cartolerie, non hanno macellerie, non hanno vita pubblica, non hanno abitanti, solo un flusso di turisti sempre diversi e sempre uguali. Hai presente, le ho detto, questi paesi a volte curatissimi (Spello), a volte solo in parte (Trevi), a volte scalcinati (Pietralunga, Cerqueto, Compignano)? Sono ancora vivi.
(Continua)