Spire
(Il racconto che segue è stato scritto a marzo 2025.
Ha partecipato al concorso nazionale di scrittura breve Petrarca.Fiv, classificandosi secondo.)
I lupi erano tornati, a decine. Ti sentivano da chilometri, ti osservavano dalla cresta accanto. Non attaccavano mai di giorno, ma Emil fu contento di avere il fucile. Lo caricò. Aggirò un castagno secolare e in fondo alla scarpata vide un tizio disteso. Vestiva l’uniforme sgargiante della compagnia autostrade, e sembrava in preda a spasmi. Scese da lui.
«Mi ha morso un serpente», disse.
«Quanto lungo?»
«Piccolo».
«Vipera. Sono nate da poco. Hanno più veleno».
«Posto di merda. Allora è vero, le buttano dagli aerei».
«Sta’ zitto».
Quel giorno, dopo pranzo, Emil aveva indossato il giubbotto vecchio, che sapeva di terra e di muschio. Aveva preso il fucile che era appartenuto a suo padre, e prima ancora a suo nonno. Non avrebbe avuto altri proprietari.
Si era addentrato nel bosco per chilometri, prima sull’altopiano delle sughere, poi tra i castagni, infine a picco in discesa, verso il torrente. Conosceva il punto esatto dove si cominciava a sentire il rumore dell’acqua: una curva secca del sentiero, vicino ai resti di una carbonaia. Si era fermato ad ascoltarlo. Aveva sentito il fruscio dei rami di un leccio, e una ghiandaia che si alzava in volo.
Era sceso fino alla diga in pietra, e alla piscina naturale della ferriera. Si era svestito e tuffato nell’acqua trasparente della pozza. Per un chilometro ancora il torrente era quasi vergine. Poi, gli scarti di pirite e ferro fuoriusciti dalla miniera abbandonata cominciavano a colorarlo di rosso; e poche anse oltre, spiccavano le prime gru e le trivelle della nuova autostrada.
Ancora gocciolante era tornato nel bosco.
Come sempre, sotto la scritta “Partigiano, cacciatore, uomo libero”, dalla foto sulla lapide un vecchio dal sorriso beffardo lo guardava puntando il fucile. Aveva chiesto che le sue ceneri finissero lì, dove era morto il cane che più adorava, morso sul labbro da una vipera.
Da anni il primo tuffo primaverile coincideva con il saluto alla tomba del nonno, come a scandire una stagione personale e segreta, ma sapeva che, quando avrebbero finito l’autostrada, non sarebbe venuto più.
L’uomo della compagnia adesso sudava, gli occhi erano liquidi. Aveva vomitato.
Emil prese il coltello e ci passò la fiamma dell’accendino.
Si mise sopra la gamba dell’uomo e incise la caviglia in corrispondenza dei fori lasciati dal morso. Succhiò dal taglio, e sentì un sapore acido in bocca. Sputò, poi sciacquò la bocca a piccoli sorsi dalla borraccia. Il siero era fuorilegge, e anche le incisioni non erano più consigliate, ma il morso era molto recente, e poteva aver succhiato via buona parte del veleno.
Sotto di loro, il torrente scorreva fra le ofioliti, enormi pietre verdastre. Per il loro colore, la lingua greca le aveva battezzate rocce serpente.
Trecento milioni di anni prima, mentre il Carbonifero dava forma alle rocce, quello era il fondale del mare.
Il torrente ancora non c’era – ma chi può dirlo? – neppure ottanta milioni di anni prima, quando forse a scrutare la selva erano gli occhi gialli dei dilophosaurus, pronti ad aprire la cresta e aggredire.
C’era però due millenni prima, quando gli eremiti giudicavano le foreste intorno adeguate a vivere di radici predicando alle creature, e gli appestati cercavano guarigione nei vapori bollenti delle pozze sulfuree che sorgevano giù, nel medio corso.
C’era un secolo prima, quando i contadini sedevano nelle sere d’estate sotto i tigli del borgo sull’altura, a parlare di colture, vino e guerra, aspettando la mietitura del grano, poi l’uva, circondati dal frinire dei grilli, dall’urlo della civetta, dalle lucciole nei fossi.
C’era durante il Boom, quando il padre di Emil, muratore, aveva costruito al centro dell’ansa più larga un trampolino in cemento dove in estate avrebbero sfilato, come in una piazza in festa, bambini urlanti, pazzi di gioia anche dopo trenta tuffi, madri guardinghe, fricchettoni ingrigiti, tedeschi in vacanza.
Il torrente c’era stato nel cuore della sua gioventù, quando era il posto più prezioso da mostrare alle ragazze che amava; e ci sarebbe stato dopo la sua morte.
Ricordò che suo padre e suo nonno tornavano a casa dalle miniere di ferro seguendo quello stesso sentiero, e fu contento di non avere figli. La responsabilità verso quella terra se ne sarebbe andata con lui. Da vecchio, avrebbe raccontato a qualche bambino di avere aiutato, un pomeriggio sul torrente, il servitore di un potere inesorabile, troppo forte per essere combattuto.
Si strappò un pezzo di camicia e annodò la stoffa sul polpaccio dell’uomo.
«Perché sei venuto così lontano dal cantiere?»
«Servono nuovi rilievi».
«Ampliamento dell’area, vero? Magari ci entra pure un autogrill vista fiume».
«Vedo tutto scuro, a chiazze… Morirò?»
Emil rise.
«Resta fermo e porta pazienza. Ti manderò qualcuno».
«Fermo qua? E i lupi?»
«Il fracasso dei lavori li scaccia. Ma è anche vero che si adattano bene, e la notte passano sempre».
Appoggiò il fucile al tronco di un acero. Mentre l’uomo lo guardava perplesso e si stendeva di nuovo a terra, cominciò a risalire il bosco.